Massimo

Marano

Specialità italiane

Italienische Köstlichkeiten

Eine kulinarische Reise mit Massimo Marano

Aus dem Italienischen von Rosemarie Mailänder und Levis Roman
Synchronisation: Doppeltext

Titelblatt

Le buone forchette

I grissini

La bagna caòda

Il Barolo

Il risotto alla milanese

Il panettone

La polenta

Il tiramisù

Il caffè

Il pesto genovese

Le lasagne

L’aceto balsamico

Il parmigiano reggiano

La ribollita

Il panforte

Gli spaghetti all’amatriciana

La Pizza Margherita

Il Marsala

Il pane carasau

Informationen zum Buch

Leseprobe: Carrellata sull’Italia

Impressum

Le buone forchette

Es­se­re una buo­na for­chet­ta si­gni­fi­ca ap­prez­za­re la buo­na cu­ci­na, man­gia­re vo­len­tie­ri e in ab­bon­dan­za.
Per gli ita­lia­ni man­gia­re non è solo una ne­ces­si­tà di so­prav­vi­ven­za, è an­che un av­ve­ni­men­to so­cia­le.
Agli ita­lia­ni pia­ce man­gia­re e sono fie­ri quan­do pos­so­no esal­ta­re le bon­tà e le spe­cia­li­tà del­la pro­pria ter­ra.
Ogni re­gio­ne ita­lia­na ha le pro­prie tra­di­zio­ni cu­li­na­rie le cui ori­gi­ni ri­sal­go­no spes­so alla not­te dei tem­pi,
ma le abi­tu­di­ni che ri­guar­da­no il con­su­mo dei pa­sti sono più o meno si­mi­li in tut­ta la pe­ni­so­la.
La pri­ma co­la­zio­ne, ad esem­pio, non è im­por­tan­te per co­min­cia­re la gior­na­ta.
Mol­ti ita­lia­ni la mat­ti­na pre­sto, pri­ma di an­da­re a la­vo­ra­re, be­vo­no solo un caf­fè e più tar­di al bar,
in­sie­me ai col­le­ghi d’uf­fi­cio, con­su­ma­no una pri­ma co­la­zio­ne: un cap­puc­ci­no e un cor­net­to.
La co­la­zio­ne a casa con­si­ste ge­ne­ral­men­te in una taz­za di caf­fe­lat­te ac­com­pa­gna­ta da bi­scot­ti o da qual­che brio­che pre­con­fe­zio­na­ta.
Ne­gli ul­ti­mi anni in al­cu­ne fa­mi­glie ita­lia­ne si è af­fer­ma­ta l’usan­za di fare co­la­zio­ne con uno o due yo­gurt.
Il pran­zo è già più im­por­tan­te e chi può, nel­la pau­sa di mez­zo­gior­no, va a casa a man­gia­re,
dove tro­ve­rà sem­pre un pri­mo e spes­so an­che un se­con­do.
Ciò ac­ca­de so­prat­tut­to nei pic­co­li cen­tri e non nel­le gran­di cit­tà, dove la vita scor­re ve­lo­ce e fre­ne­ti­ca sen­za fare trop­pe con­ces­sio­ni.
Nel­le cit­tà ci sono però mol­ti ri­sto­ran­ti che si sono or­ga­niz­za­ti e sono in gra­do di ga­ran­ti­re alla clien­te­la che ha solo un’ora di tem­po, un ser­vi­zio ce­le­re
con una buo­na scel­ta di pri­mi e se­con­di piat­ti a prez­zi con­ven­zio­na­ti.
La cena è l’ap­pun­ta­men­to ga­stro­no­mi­co più im­por­tan­te del­la gior­na­ta.
Ge­ne­ral­men­te la cena pre­ve­de un se­con­do piat­to a base di car­ne o pe­sce con il re­la­ti­vo con­tor­no.
Se c’è un pri­mo, si trat­ta di una pic­co­la por­zio­ne di pa­sta, d’in­ver­no può es­se­re an­che un bel mi­ne­stro­ne a base di ver­du­re.
Vino e pane non de­vo­no man­ca­re. La cena si può chiu­de­re con l’as­sag­gio di qual­che for­mag­gio se­gui­to dal caf­fè.
Un al­tro im­por­tan­te ap­pun­ta­men­to con la ta­vo­la è il pran­zo del­la do­me­ni­ca, al qua­le spes­so sono in­vi­ta­ti pa­ren­ti e ami­ci.
Non esi­ste un piat­to ti­pi­co per que­sto gior­no di fe­sta, ma an­co­ra oggi in mol­te fa­mi­glie è dif­fu­sa l’usan­za di man­gia­re le la­sa­gne.
Il pran­zo si apre co­mun­que con l’an­ti­pa­sto, se­gui­to dal pri­mo e dal se­con­do per poi chiu­de­re con dol­ce, frut­ta e caf­fè.
In ge­ne­re si co­min­cia a man­gia­re ver­so l’una e si fi­ni­sce ver­so le tre del po­me­rig­gio.
Bi­so­gna an­che dire che gli ita­lia­ni sono at­ten­ti alle scel­te ali­men­ta­ri.
Se ad esem­pio han­no man­gia­to del­la car­ne a pran­zo cer­che­ran­no di va­ria­re per la cena.
Quat­tro ita­lia­ni su die­ci non sono mai an­da­ti a man­gia­re in un ri­sto­ran­te stra­nie­ro
e gli ita­lia­ni che van­no all’este­ro han­no spes­so no­stal­gia del­la cu­ci­na di casa pro­pria,
un se­gna­le chia­ro e for­te che in­di­ca quan­to que­sto po­po­lo ami la pro­pria cu­ci­na.
Per gli abi­tan­ti del «bel pae­se» man­gia­re re­sta co­mun­que un pia­ce­re e ri­ten­go­no che nu­trir­si in modo sano sia im­por­tan­te per la sa­lu­te.
Pic­co­li epi­so­di quo­ti­dia­ni te­sti­mo­nia­no dell’im­por­tan­za del man­gia­re.
Nei pic­co­li cen­tri, che di so­li­to han­no una sola via prin­ci­pa­le e una piaz­za con la chie­sa,
le per­so­ne che du­ran­te la gior­na­ta si in­cro­cia­no più vol­te di­scu­to­no spes­so e vo­len­tie­ri di ciò che si man­ge­rà a pran­zo
e poi di ciò che si è man­gia­to a pran­zo e nel tar­do po­me­rig­gio,
dopo la sie­sta, la do­man­da sarà la stes­sa per sa­pe­re qua­le pie­tan­za ci sarà per cena
e chi usci­rà di casa per man­gia­re un ge­la­to sul lun­go­ma­re do­vrà ri­fe­ri­re cosa c’era nel piat­to.
E pri­ma di an­da­re a dor­mi­re qual­cu­no chie­de­rà di si­cu­ro: «Cosa man­gi do­ma­ni?»
L’ap­pe­ti­to vien man­gian­do.

I grissini

Chi en­tra a se­der­si in un qual­sia­si ri­sto­ran­te di una qual­sia­si cit­tà ita­lia­na
no­te­rà al cen­tro del ta­vo­lo un ce­sti­no ci­lin­dri­co con del­le bu­ste di pla­sti­ca dal­la for­ma al­lun­ga­ta.
Sono in po­chi a re­si­ste­re alla ten­ta­zio­ne di aprir­le per gu­star­ne il con­te­nu­to, cioè i gris­si­ni.
E così an­co­ra pri­ma che ar­ri­vi il ca­me­rie­re a pren­de­re le or­di­na­zio­ni, il ce­sti­no è già vuo­to e il ta­vo­lo è pie­no di pic­co­le bri­cio­le.
La sto­ria del gris­si­no è le­ga­ta alla sto­ria del­la più gran­de di­na­stia ita­lia­na:
i Sa­vo­ia, che nel cor­so di qua­si mil­le anni han­no re­gna­to in Ita­lia de­ci­den­do­ne poi le sor­ti.
La leg­gen­da del gris­si­no na­sce nel 1666 as­sie­me a Vit­to­rio Ame­deo II, fi­glio di Car­lo Ema­nue­le II di Sa­vo­ia
e di sua mo­glie Gio­van­na Bat­ti­sta di Sa­vo­ia Ne­mours.
A quel tem­po il Du­ca­to di Sa­vo­ia, ol­tre a com­pren­de­re gran par­te dell’odier­no ter­ri­to­rio pie­mon­te­se,
si esten­de­va fino alla re­gio­ne di Niz­za a sud-ove­st e a nord-ove­st ab­brac­cia­va la Val­le d’Ao­sta e par­te del­la Fran­cia.
Il pa­dre morì quan­do Vit­to­rio Ame­deo ave­va sol­tan­to nove anni
e pro­pria­men­te il com­pi­to di re­gna­re sul­lo Sta­to Sa­bau­do, ov­ve­ro sul Du­ca­to di Sa­vo­ia, sa­reb­be toc­ca­to al pic­co­lo no­bi­le.
Es­sen­do an­co­ra trop­po gio­va­ne per re­gna­re, fu la ma­dre ad as­su­me­re prov­vi­so­ria­men­te la reg­gen­za.
Il duca, fin dal­la na­sci­ta, era di fra­gi­le co­sti­tu­zio­ne ed era sem­pre un po’ ma­la­to.
Ma ciò che più pre­oc­cu­pa­va la cor­te era­no i suoi ter­ri­bi­li di­stur­bi in­te­sti­na­li, e un gior­no au­men­ta­ro­no fino al pun­to che si co­min­ciò a te­me­re per la sua vita.
Si do­ve­va fare di tut­to per far gua­ri­re il fu­tu­ro so­vra­no dei Sa­vo­ia.
Il me­di­co di cor­te, un cer­to Don Bal­do Pic­chio, si ri­cor­dò
che nel­la sua in­fan­zia ave­va avu­to si­mi­li di­stur­bi cau­sa­ti dal pane mal cot­to.
Sua ma­dre lo ave­va cu­ra­to som­mi­ni­stran­do­gli del pane ben lie­vi­ta­to, ben cot­to, croc­can­te e con poca mol­li­ca.
Il me­di­co si ri­vol­se quin­di al pa­net­tie­re di cor­te, An­to­nio Bru­ne­ro di Lan­zo, che pre­pa­ra­va un pane al­lo­ra in uso,
chia­ma­to «Gher­sa», dal­la ca­rat­te­ri­sti­ca for­ma al­lun­ga­ta.
Il me­di­co e il for­na­io eb­be­ro la ge­nia­le idea
di se­pa­ra­re dall’im­pa­sto dei ba­ston­ci­ni di pa­sta lie­vi­ta­ta che mi­su­ra­va­no cir­ca cin­quan­ta o ses­san­ta cen­ti­me­tri di lun­ghez­za, i qua­li fu­ro­no poi cot­ti se­pa­ra­ta­men­te.
Sic­co­me era­no sta­ti sot­to­po­sti a dop­pia cot­tu­ra era­no «bis-cot­ti».
Con­te­ne­va­no po­chis­si­ma ac­qua, era­no fria­bi­li, sen­za mol­li­ca, con un buon aro­ma e una lie­ve cro­sta do­ra­ta.
Per il me­di­co que­sto era il pro­dot­to idea­le per gua­ri­re il pic­co­lo Vit­to­rio Ame­deo.
La cura a base di que­sto pane fu dav­ve­ro mi­ra­co­lo­sa, i di­stur­bi spa­ri­ro­no com­ple­ta­men­te.
Nel 1713 Vit­to­rio Ame­deo II di­ven­ne il pri­mo Re Sa­bau­do de­di­can­do­si alla po­li­ti­ca e all’or­ga­niz­za­zio­ne del­lo Sta­to.
In ogni suo viag­gio non man­ca­va una scor­ta di que­sti ba­ston­ci­ni di pane croc­can­te che ave­va­no pre­so il nome di gris­si­ni,
pa­ro­la che de­ri­va da «gher­si­ni», di­mi­nu­ti­vo di «gher­sa». I gris­si­ni di­ven­ne­ro pre­sto il «pane» pre­fe­ri­to dei Sa­vo­ia.
Per­si­no Na­po­leo­ne an­da­va mat­to per i gris­si­ni. Lui li chia­ma­va «les pe­ti­ts bâ­tons de Tu­rin» – i pic­co­li ba­ston­ci­ni di To­ri­no –
e or­ga­niz­zò un ser­vi­zio po­sta­le che gli ga­ran­tis­se re­go­lar­men­te l’ap­prov­vi­gio­na­men­to di gris­si­ni da To­ri­no.
Il gris­si­no si dif­fu­se ra­pi­da­men­te e pre­sto fu un ge­ne­re ali­men­ta­re ap­prez­za­to da tut­ti … e lo è an­co­ra oggi.
È un gran me­di­co
chi co­no­sce il suo male.

Originalausgabe
2012 Deutscher Taschenbuch Verlag GmbH & Co. KG, München

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eBook ISBN 978-3-423-41960-4 (epub)
ISBN der gedruckten Ausgabe 978-3-423-09504-4

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